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The Son (2022): Riflessioni sulla depressione di un adolescente


“The Son” affronta tematiche estremamente dolorose che rientrano all’interno dei drammi familiari e ci mette di fronte alle nostre illusioni.

“The Son” (2022) è un film diretto da Florian Zeller, tratto dalla sua omonima pièce teatrale, che rappresenta un dramma psicologico e psicopatologico. Il film esplora tematiche complesse come la depressione adolescenziale, la dinamica familiare e i traumi transgenerazionali, con un’attenzione particolare alle conseguenze che i rapporti interpersonali tra genitori e figli possono avere sullo sviluppo psicologico.

ATTENZIONE CONTIENE SPOILER: TORNA A LEGGERE DOPO AVER VISTO IL FILM

Trama e Tematiche Psicologiche

La storia ruota attorno a Peter (interpretato da Hugh Jackman), un uomo di successo la cui vita viene sconvolta quando l’ex moglie Kate (Laura Dern) gli comunica che il loro figlio adolescente, Nicholas (Zen McGrath), sta attraversando una profonda crisi, sente tutta la rabbia di suo figlio, non lo riconosce più. Nicholas, incapace di gestire il suo dolore e il senso di abbandono, è accolto nella casa del padre, che dal canto suo cerca di fornirgli comprensione e supporto.

A questo punto viene toccata realisticamente e in modo toccante la profonda depressione di Nicholas. Si può vedere con i propri occhi tutta la sua disperazione, ma ancor di più l’incapacità di comunicare il proprio malessere che molti adolescenti sperimentano. Nicholas non riesce a trovare un senso di appartenenza né a scuola né a casa, e il suo isolamento è palpabile. Ci sono delle scene molto emozionanti dove ricorda, gioca e ride con il padre, come quella del ballo, ma terminano facendo vedere come questa sia solo la maschera di Nicholas. 

Maschera che piano piano si sgretola, questo avviene quando l’elemento estraneo alla coppia genitoriale interviene. E’ Beth, la nuova compagna di Peter, a scoprire la lama che usa il giovane per tagliarsi, ferite che testimoniano l’unico modo di silenziare il dolore psichico che Nicholas sente e a cui nessuno sa dare un nome, lui per primo. Egli mente e minimizza anche coscientemente per accontentare il padre, lo ammette anche piangendo da Kate, “gli ho detto quello che voleva sentirsi dire”. Ecco la maschera è caduta, la centrifuga della lavatrice si ferma, non c’è più nulla da lavare. A questo punto non rimane che la sofferenza senza volto come protagonista e il povero Nick è costretto a compiere un gesto estremo di disperazione, è trovato in bagno (sempre da Beth) esanime e viene ricoverato in un reparto psichiatrico. 

Ma a questo punto sarebbero dovute anche cadere le maschere di Peter e Kate che nel loro concepirsi come genitori amorevoli non ascoltano le raccomandazioni dello psichiatra. Credono che l’amore possa curare tutto, ma non sanno che quello al quale ha ceduto Nicholas è un demone vero e proprio, un daimon che vede solo rabbia, dolore e disperazione. 

Similia Similibus Curentur – “I simili curano i simili”. Questo demone, per essere curato, doveva rimanere con i propri simili, nel bassofondo dell’anima rappresentato da un reparto psichiatrico, in questo avrebbe finito per esaurire lì la propria energia. L’unico modo che aveva Nicholas per prendere consapevolezza della propria disperazione era vederla riflessa negli altri depressi, aspiranti suicidi, schizofrenici, maniaci presenti nel reparto. Da qui, attraversato il girone infernale con l’aiuto del personale medico avrebbe potuto riemergere per tornare nel mondo ad essere il giovane, lo studente e così realizzare le proprie aspirazioni.

Purtroppo non andrà così! La trama adesso è scritta e lascia spazio al più tragico dei finali, il suicidio del povero Nicholas.

Una riflessione archetipica sul suicidio

Hillman ne “Il suicidio e l’anima”, edito per la prima volta nel 1964, si occupa della tematica e mostra come l’atto suicidario è il modo in cui il soggetto tenta di spegnere la sofferenza dell’anima.  Aspetto che ci conferma anche Nicholas con il suo autolesionismo come unica modalità di sospendere la sofferenza che vive. Ma il pensiero di Hillman va oltre, infatti ci fa notare che la sofferenza e l’ideazione suicidaria sono una modalità per avvicinarsi all’idea della morte. 

E qui occorre fare un distinguo radicale, per prima cosa vi è l’idea della morte dal punto di vista di un organismo dotato di una qualsiasi forma di coscienza, un punto di vista soggettivo che indica la cessazione del proprio equilibrio vitale; l’istinto di sopravvivenza lo porta ad allontanarsi il più possibile da questa realtà. Poi c’è l’idea della morte dal punto di vista della natura, una prospettiva oggettiva che ci dice che la morte non è altro che trasformazione. Non è necessario dilungarmi per dimostrare tale evidenza, basta ricordare che l’anima, la psiche, nella prospettiva archetipica, va oltre il corpo e abbraccia la natura con la sua oggettività.

Adesso può divenire chiaro tutto il dolore che attraversa un adolescente, un quarantenne, una neo-mamma o un neo-pensionato. Queste sono tutte fasi della vita che implicano una profonda trasformazione e in cui la psiche preme per far emergere nuove disposizioni o nuovi immaginari. A volte preme troppo forte, altre volte non si hanno a disposizione gli strumenti per comprenderla, più spesso entrambe le cose per cui tale idea assorbe tutta la soggettività facendola piombare nella depressione più profonda. L’idea di morte che la psiche – come natura – ricerca è un’idea di trasformazione che tuttavia non può essere compresa. Primo perché come soggetti siamo spinti alla sopravvivenza, secondo in quanto la stessa idea di morte è abolita dall’immaginario collettivo. La soluzione è accogliere la necessità di attraversare quest’idea, questo immaginario e comprenderla. Una comprensione che non può essere concettuale, ma che si deve esprimere in termini simbolici, estetici o poetici come sarebbe potuto avvenire, in sicurezza tra l’altro, per Nicholas entro il reparto psichiatrico. 

Ricordiamo che solo pochi individui sono in grado di attraversare l’immaginario della morte in modo lucido e solitario fino a poterne decidere liberamente, un esempio fu Socrate. In passato i riti di iniziazione e di passaggio avevano proprio questo compito, quello di simboleggiare la morte di uno status individuale per permettere la rinascita del nuovo.

La Dimensione Transgenerazionale

Saturno divora suo figlio
Saturno che divora i suoi figli. Particolari di Rubens (a destra) e Goia (a sinistra)

Uno degli aspetti più interessanti del film è il modo in cui esplora la figura transgenerazionale del padre. Peter, oltre a dover affrontare la sofferenza del figlio, deve confrontarsi con il proprio passato e il complicato rapporto con suo padre (interpretato da Anthony Hopkins). Il padre di Peter è un uomo rigido e distante, che ha trasmesso a suo figlio un modello di mascolinità e paternità basato sull’autorità e sulla mancanza di empatia, tuttavia è anche l’unico senza una “maschera” amorevole che filtra la realtà minimizzandola. Anzi appare fregarsene della presunta superiorità morale del figlio, un’illusione di cui si ammanta Peter che non cogliamo all’inizio ma risulta estremamente chiara nel finale. 

L’incapacità di elaborare il dramma familiare e di tagliare con il passato è simboleggiata dall’arma con cui si suicida Nicholas, il fucile regalato dal nonno a suo padre, il quale dichiara di non amare ne le armi e ne andare a caccia… ma perché tenerlo allora? Ecco che qui, senza entrare nel simbolismo fallico rappresentato dal fucile, il regista simbolicamente ci comunica tutta la tragicità che può comportare il lottare contro i lasciti generazionali. Una lotta impossibile che ha come esiti o l’identificazione, anche se edulcorata, assunta da Peter, o l’autodistruzione proposta da Nicholas. 

Infatti, la difficoltà di Peter nel comunicare con Nicholas e nel comprendere la sua sofferenza può essere vista come una conseguenza diretta del modello genitoriale ricevuto. Questo modello viene replicato, in parte inconsciamente, creando un ciclo di dolore e incomprensione che attraversa le generazioni. L’immagine mitica che si impone è quella di Crono che inghiotte i suoi figli. È quello che avviene in questo film, la stessa depressione è simboleggiata da immagini come il piombo, la pesantezza, la morte, tutti aspetti che rimandano al dio Saturno, non a caso rappresentato con la falce, come l’aggettivo “saturnino” rimanda alla pesantezza melanconica.

Ma che fare allora? 

Nulla, non ci si può fare nulla! 

Quello che è stato è stato, ma in questo “nulla” è presente una sospensiva, la possibilità per atto di riflessione, di ricordo e memoria ed è questo lo spazio di Psiche. Nella mitologia è Zeus che rompe la sequela di antropofagica di Crono, ma per avere tali forze dovette acquisire la prospettiva di Fanes, che Jung associa alla libido, all’energia psichica capace di differenziarsi in ogni possibilità simbolica. È grazie a questa capacità di differenziare in simboli che Zeus acquisisce il suo potere nel cosmo. È nella caverna in cui si acquisisce l’energia del simbolico, è in questa zona mediana che sarebbe stato possibile, prima per Peter e poi per Nicholas, comprendere cosa li anima, chi sono e chi vorrebbero essere senza doversi contrapporre ad un modello genitoriale amato e odiato allo stesso tempo. 

Qui torna l’eco di Freud con il suo “Totem e tabù” che, tralasciando i travisamenti di interpretazioni letterali, letto junghianamente ci indica come per attuare un processo di individuazione occorre trovare la forza di uccidere e trasformare la funzione paterna. Zoja ci ricorda che essa è ereditata culturalmente e implica il saper mettere ordine e regole, il saper delimitare e orientare, il sapersi proiettare oltre. Ucciderla simbolicamente significa trovarne una individualizzata che va oltre la tradizione tramandata.

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Nel produrre il nuovo, la forza creativa uccide.

James Hillman (1926 - 2011)


Ecco link dei testi citati

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